Sia lode alla tecnologia che ci permetterà di assistere a questa gara anche senza essere fisicamente presenti. Non è proprio la stessa cosa, non si potrà assaporare fino in fondo il tifo del pubblico, o percepire la tensione in campo; l’audio e/o le immagini a volte salteranno, ma è certo meglio di niente.
Commenti ed immagini fluiranno veloci nei social, ma a parte gli usuali complimenti ai concorrenti, poco viene in genere detto del contesto.
Il CVI di Aachen non è un CVI qualunque, mai! È letteralmente un anticipo dei campionati maggiori che ogni anno si tengono da lì a poche settimane. La federazione tedesca definisce durante questa gara chi rappresenterà la nazione ai campionati continentali o mondiali (inutile nascondersi dietro un dito, è la Germania la nazione leader nel volteggio e in quanto tale tutti guardano con interesse ogni sua mossa); qui ad Aachen si mettono a punto gli ultimi dettagli degli esercizi in vista del massimo appuntamento, le strategie da adottare. Già la sola partecipazione è un onore, un implicito riconoscimento di essere tra i grandi.
Ma cosa significa competere in una gara come questa, cosa prova, ogni atleta prima di entrare in campo? Non so se le mie parole potranno rendere giustizia del turbinio di emozioni che devono agitarsi nel cuore e nella mente di ogni volteggiatore in quei pochi istanti prima dell’entrata, quando la consapevolezza della posta in gioco tende a prendere il sopravvento sulla razionalità, quando sai che alla fine è arrivato il momento in cui ti giochi in un minuto o poco più, mesi di duro lavoro, la tua immagine. Non è un mistero che far bene ad Aachen ti fa guadagnare punti agli occhi di pubblico e giudici. E ciò non guasta in previsione delle competizioni che seguono.
Ho provato a chiudere gli occhi e a rivivere l’evento come se fossi una di loro, Anna, o Silvia magari, le atlete che conosco meglio. In tutti questi anni in cui ho seguito il volteggio, ho imparato ad amare questo meraviglioso sport e i suoi protagonisti, ho visto e rivisto mille volte tutte le fasi della gara, anche quelle preliminari. Con gli occhi chiusi mi appare tutto al rallentatore, scorgo i particolari, movimenti impercettibili, piccoli tic. Provo a mettere queste immagini nero su bianco. Vorrei trasmettervi la scarica di adrenalina e il nodo alla bocca dello stomaco che ogni volta mi prende… fin dall’inizio.
Non tocca ancora a me… non tocca ancora a me. Quante entrate mancano? Ok.. Ok. Sono pronta. Mi sono scaldata, anche il cavallo. Ora è meglio che cammini un po’. Sento distintamente il sangue che pulsa violento nelle vene. Perché ho la bocca così impastata? Forse è meglio che beva un sorso d’acqua. Cammino a passi lunghi e lenti, un po’ rigidi in verità. Mi giro di scatto, qualcuno mi tocca la spalla, mi hanno chiamato ma non me n’ero accorta, gli auricolari sparano la musica nelle mie orecchie: non voglio sentire nessuno, non voglio vedere nessuno. Ma certo, devo controllare le ultime cose, le redini, la posizione del pad. Il fascione è stretto bene? Sembra tutto a posto. Sento l’impellente desiderio di scrocchiare le dita delle mani. C’è il tempo ancora per qualche movimento di stretching, qualche saltello nervoso a piedi uniti.
La performance dell’atleta che mi precede è finita, sta per uscire, è meglio che mi avvicini alla porta. Ci sono già ad aspettarmi cavallo e lunger. Appoggio la mia mano per un lungo istante sul fianco del cavallo, lui sembra più calmo di me, almeno lo spero. No, ne sono sicura. Mi dai un po’ della tua forza? Aspetto a testa bassa appena fuori dal cancello d’ingresso che lo speaker scandisca il mio nome. La chiamata risuona nella mia testa come un gong. Spalanco gli occhi. Un grande respiro, e… su la testa! Mento alto, si va in scena.
La musica d’entrata mi carica. Il pubblico comincia a scandire il ritmo battendo le mani, mi stanno aspettando. I miei inseparabili compagni e amici, lunger e cavallo, mi precedono, sono appena qualche passo avanti, mi aprono la via. Ora tutti gli occhi penetranti ed attenti della gente sugli spalti sono su di me, mi sembra di sentirli tutti, uno per uno, come piccoli aghi, ma è un momento. Il frastuono del tifo si percepisce, ma solo in lontananza come sottofondo, tanta è la concentrazione e la tensione. Nel saluto al giudice in “A”, il sorriso è d’obbligo, ostento sicurezza, ma le gambe mi tremano un po’. Alla casa controllo le scarpine, mi aggiusto per l’ultima volta molto discretamente la tutina, poi ancora qualche attimo di raccoglimento, è quasi una preghiera. Mi risveglia la campanella del giudice, guardo il mio lunger che mi sorride, impercettibilmente, anche lui è teso. Ma io lo conosco, mi sta dicendo dai, vai e fai vedere quello che sei! Abbi fiducia. Come farei senza di lui? Appena finisco l’esercizio devo ricordarmi di dirglielo. Il cavallo sta già facendo il giro di galoppo, la musica è partita. Quasi senza accorgermene faccio segno di alzare ancora il volume. Voglio uno scudo e la musica ad alto volume isola. E poi anche il cavallo deve essere concentrato, lui conosce queste note, non lo distrarranno. Tranquillo, non è niente di nuovo, lo abbiamo provato mille volte a casa. Ma a chi lo sto dicendo? A me o al cavallo? Forse in questo momento è proprio una domanda senza senso, io e lui siamo un tutt’uno ora come non mai.
Ben strana cosa il tempo… non lo capirò mai. Chissà perché quando sono in gara quel minuto, quei sessanta normalissimi secondi mi sembrano un’eternità… e allo stesso tempo un battito di ciglia.
Ora è passato, sono già fuori del campo gara. Ho solo voglia di abbracciare tutti, il mio lunger, il mio cavallo, i miei amici. Sì ci sono anche loro a bordo campo e mi stanno aspettando. Anche a loro devo qualche cosa, il loro sostegno non manca mai, ai loro occhi sono sempre stata perfetta, anche se non è vero, e lo so. Ma mi dicono quello che mi fa bene sentire e li adoro per questo.